Dalla quarta di copertina:

Perché ci piacciono i tramonti? Forse perché i tramonti sono così simili a noi? Forse perché anche noi, sin dal nostro primo respiro, siamo destinati a tramontare? Tante le domande che si pone la protagonista di questo libro, la bambina fascinosa e ipnotica di cui tutti parlano. Si dice che sia matta. Si dice che venga dall’altro mondo. Si dice che sappia leggere nel pensiero. La sua vita non è delle più semplici: sua sorella muore, e dopo poco diventa una vera e propria dea. Tutti la venerano, è un culto inarrestabile. Statue che la ritraggono sorgono ovunque, in ogni angolo. Rivelano la sua verità: l’aldilà non è in cielo, ma laggiù, nel sottosuolo. Tramontare è circondata di dolore; solo un compagno di classe, senza aprire bocca, le presta attenzione: lo chiamano Bambino Nitido. Da dove arriva tutta la luce che ha dentro? Passano gli anni e Tramontare sembra un’altra persona. La vediamo anziana nella sua casa di Masserie di Cristo: sembra una donna saggia, adesso, che vuole vivere pienamente i momenti che le restano. Seguiamo i suoi pensieri, le sue speranze, i suoi ricordi: che cosa significa avere vissuto una vita intera? Cosa ce ne facciamo delle esperienze? Dove finiscono i pensieri? Quanto conta un respiro?
In Tramontare Andrea Gentile indaga una vita qualunque che si fa simbolo. È, questa, una vita che riesce a raccontare tutte le vite, perché in tutte le vite si nasce e subito si è destinati, come tutto, a tramontare.

RECENSIONI

Nicola H. Cosentino su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, 22 agosto 2021

Quella del romanzo come incubo ricorrente è una via letteraria buia e forse cieca, ma molto frequentata: ai residenti più noti — Thomas Ligotti, László Krasznahorkai e, in certe stagioni, il compianto James Purdy — si aggiungono continuamente nuove generazioni di autori in fuga dal realismo. Andrea Gentile, per esempio, vi ha preso casa nel 2012, anno in cui ha esordito con L’impero familiare delle tenebre future. Ad attrarlo, il feeling col vicinato e i margini di manovra con cui solo l’ombra sa tentare gli scrittori: creare da zero e disfare fino a zero, avendo, come unica fonte d’ispirazione, il proprio immaginario. Anche Tramontare, in uscita per minimum fax, è un libro scritto al buio, senza modelli dal vero. Come due dei romanzi precedenti di Gentile, tra cui l’apprezzato I vivi e i morti (2018), si svolge a Masserie di Cristo, una base di presepe surrealista che, di tanto in tanto, di storia in storia, torna a popolarsi, rabbuiarsi, tremare. Capita che i pastorelli, nel trambusto, perdano l’equilibrio, ma Gentile non li rialza: piuttosto, inventa per loro nuove leggi della fisica, modi inauditi di camminare, raggiungersi, fuggire via. E nessuno, sulla scena, batte ciglio: nelle 210 pagine di Tramontare — valga come avvertimento — si menzionano zero espressioni facciali.

Altro avvertimento: Tramontare è un nome proprio, quello della protagonista. Bambina mai ferma, mai in pace, mai due volte nello stesso posto e vicino allo stesso interlocutore; ma anche, dalla seconda parte del romanzo, anziana immobile, intoccabile, sola. Ciò che per quaranta capitoli sembra un Pinocchio dell’oltretomba, il resoconto fiabesco/horror dei castighi inflitti a una monella (in base a questo schema: un adulto inquietante la prende per mano e la porta in un posto peggiore di quello in cui stava prima, pretendendo di impartirle una lezione che lei non capisce), diventa all’improvviso una riflessione su come, in fondo, si viva sempre e solo nella propria mente, specie agli estremi dell’esistenza. La frustrazione ardente dell’infanzia contro la digestione lentissima della vec chiaia, i due tempi più punitivi in assoluto e gli unici in cui gli insegnamenti, pur per ragioni diverse, vengono respinti in partenza. Andrea Gentile, che a quella di burattinaio di Masserie di Cristo affianca, nel mondo reale, la carica di direttore editoriale del Saggiatore, ha un’idea molto chiara di letteratura, e una poetica decisa e riconoscibile. Provoca esperienze letterarie volutamente squilibrate, che portano il lettore a riconsiderare i confini della propria disponibilità a farsi sconvolgere dai romanzi.

Leggere Tramontare significa perdersi fra lo sfocato e l’accecante, privi di mappe, compagni di cordata, indicazioni. In chi legge, si affaccia una voglia di nitidezza speculare a quella interna al romanzo: Gentile le scolpisce entrambe nel rapporto tra la protagonista e un personaggio che si affaccia solo quando si parla di amare e di morire, perché l’amore, come la morte, semplifica, stoppa il caos, azzera la fame. Nella prima parte, più feroce e allucinata, Gentile ricorre a uno sguardo infantile, trasformando il letterale in letterario: agnellini che diventano neonati; ragazze morte troppo giovani che vengono automaticamente commemorate come sante; padri che «hanno un’altra donna», segreta, che è di fatto una derelitta di cui nessuno sa niente, legata in cantina; bambine «cattive», trattate come nemiche pubbliche…

Le menzogne e le semplificazioni riservate ai ragazzini generano, distorcendosi, un intero immaginario, che a sua volta genera un mondo: in Tramontare la realtà corrisponde a ciò che la protagonista riesce a comprendere. Voci e visioni come quelle di Gentile, così radicali, vanno preservate, accolte con gioia. Specie quando spalancano dubbi, perplessità, sgomento. Se l’andatura di Tramontare appare, di tanto in tanto, traballante è perché l’autore ne ha sacrificato l’incisività e l’omogeneità sull’altare della sperimentazione. Riuscendo nel difficile compito di ritrarre l’atmosfera di un sogno: età che mutano all’improvviso, false piste, ripetizioni, sovrapposizione di volti, personaggi, tempi. Gentile maneggia l’onirico senza temerne l’insensatezza, che anzi diventa un elemento centrale (un fine?) della narrazione. A consentirlo è, ancora una volta, l’infinito potenziale metafisico dell’ambientazione-trama, Masserie di Cristo: per Gentile, l’intuizione della vita. Stavolta serve a suggerire l’indicibile, e cioè che la fine sia meglio dell’inizio. Per ragioni di bellezza e, soprattutto, di chiarezza. Prendiamo i tramonti: la fase terminale del sole, oltre a essere la più bella da vedere, non è anche l’unica che si possa guardare senza protezioni, e a occhi spalancati?

Giacomo Giossi su “il manifesto”, 24 agosto 2021

La voce letteraria di Andrea Gentile è icastica e densa, capace di aderire ad un genere come di discostarsene rimanendo comunque sempre potentemente limpida e riconoscibile. Un passo preciso e cadenzato che ha la forza di dare forma ad un’opera letteraria compatta quanto imprevedibile. Nuovo tassello di questa che potremmo definire o meglio individuare come una vera e propria epica della contemporaneità che ha preso avvio nel 2012 con L’impero familiare delle tenebre future e che si è pienamente palesata con I vivi e i morti del 2018 è Tramontare pubblicato come il precedente romanzo da minimum Fax (pp. 212, euro 16).

Si aggiunge così un nuovo elemento ad un discorso letterario ampio e innovativo che utilizza gli strumenti della fiaba nera, quasi dell’indagine antropologica per decriptare un tempo, quello presente senza mai però schiacciarlo nella ritrita attualità di un discorso ossessivamente votato al presente inteso come il tempo fatto di avvenimenti e di volta in volta di successivi e puntuali accadimenti.

Quello che muove Tramontare è in realtà l’azione di un tono di voce che di volta in volta avvicina o allontana il pericolo apparente di una morte che ha invece la funzione di liberare dall’ovvio previsto: un vero quanto temuto passaggio di stato che cela all’interno del desiderio il suo stesso incubo. Nel movimento evidentemente interstiziale che rappresenta l’equilibrio magico della narrazione agisce la voce di Gentile dando forma in primo luogo ad un personaggio in perenne stato di contemplazione, quello della bambina, Tramontare che dà il nome al libro e che rappresenta l’attrice di una lotta continua tra la crescita e la morte, una lotta dentro cui – come è immaginabile – è complesso e arduo comprendere dove sta l’ombra e dove la luce.

Come nel precedente I vivi e i morti anche qui il luogo della scena – come una vera e propria quinta teatrale – è Masserie di Cristo, un luogo che è anche un’ancora, un modo per unire la rappresentazione a tratti volutamente fiabesca con la carnalità di un luogo fisico fortemente caratterizzato. Un’apparente contraddizione che ha la capacità di trasformare l’ambiguità a tratti tetra della narrazione in lucidità e la paura in una forma di consapevolezza.

Tramontare è un libro che affronta la maturità dei nostri tempi restituendo a questo eterno presente fatto di storielle una storia possibile e lo fa capovolgendo i termini, restituendo leggerezza ad un materiale narrativo che spesso si vuole pesante e carico di misticheggianti interpretazioni. Il libro supera i suoi confini definendosi oltre le proprie pagine e parlando direttamente al lettore come ad un interprete attivo e privilegiato della scena, Tramontare genera apparizioni come già esemplificato nell’omonimo testo pubblicato da Andrea Gentile per Nottetempo, una sorta di vera e propria dichiarazione di poetica dell’autore. Tra domande assolute e risposte sottili, Tramontare è un romanzo rizomatico, un testo prezioso e raro sul valore della nostra stessa dimensione in un tempo che diamo per finito.

Alberto Casadei su “Tuttolibri” de “La Stampa”, 28 agosto 2021

Nella prima parte del libro di Andrea Gentile, terza puntata delle storie avvenute nell’immaginario paese di Masserie di Cristo, Tramontare è il nome di una bambina che, piccolissima, ha dovuto superare una notte fredda, lasciata sola dai genitori: ci riesce, ma da quel momento, anziché aver paura della morte, pensa di essere lei stessa la morte. Con questa premessa, le stravaganti azioni che la coinvolgono assumono un sapore particolare, quasi appunto che ogni essere umano o animale che viene in contatto con la bimba debba rivelare un suo aspetto nascosto e assurdo. Non c’è quindi nessuna logica nel racconto, nessun tentativo di benché minima verosimiglianza al di fuori di singoli microeventi: è come se il continuum delle esistenze si frantumasse in un campionario di fatti senza capo né coda, eppure ciascuno a suo modo decisivo alla ricerca di un senso che non sia quello razional-utilitaristico.

Ci inoltriamo in un territorio letterario abbastanza chiaro, quello dei racconti antilogici come le storie di Alice, e soprattutto al limite tra mondo della vita e mondo della morte, come spesso accade in quel noir in forma di storia per bambini che è Pinocchio. Come il burattino, Tramontare deve confrontarsi con la Forza dell’ordine, unica e assoluta, che le comunica il suo grande errore, quello di sperare e di indurre a sperare, persino ad amare, mentre invece questi istinti vanno presi e disintegrati. In effetti però i comportamenti della bambina sfuggono a ogni schematizzazione, sembrano a volte umanissimi altre volte crudeli: e in effetti, come le diceva la nonna, non sembra che qui esistano i buoni e i cattivi, ma solo i viventi e i non viventi. La domanda allora sarebbe: cosa vuol dire vivere, posto che ogni tentativo di senso va incontro alle incongruenze più conclamate, come ben si verifica alle Masserie?

Molti dei singolari personaggi, dalla madre che ora ha avuto un altro figlio dal Cancelliere, al padre, ufficialmente Macellaio, ai membri della scuola, del comune e così via, sembrano affidarsi alla Sorella santa di Tramontare. Su di lei viene costruito un nuovo culto, bizzarro ma attraente, buono per evitare di farsi troppe domande. La bambina invece prende un agnello in custodia, anche se poi sembra perderlo o comunque non è chiara la sua sorte, girovaga chiedendo dell’animale, del Cancelliere, del Bambino Nitido, che non vuole nessuna idea di realtà… E insomma è una quête senza uno scopo quella che leggiamo, oppure, lo intuiamo, lo scopo è l’inchiesta stessa, con l’inquietante esito che Tramontare potrebbe non essere mai esistita, se non nel suo tremare scorrendo da uno stato a un altro, da una vita-morte a una morte-vita.

Ma il libro di Gentile ha poi una seconda parte, dove invece intuiamo che è protagonista Tramontare da anziana, dedita a ricordi che s’intrecciano ad altre sue vicende alle Masserie. Soprattutto qui cogliamo più scopertamente alcuni presupposti filosofici del testo, dall’anticartesianesimo («come si fa a dire: io penso?») all’attenzione verso le meditazioni orientali. E non mancano microcitazioni molto significative, per esempio sulla morte che, alla Celan, è un «maestro tedesco», dunque è penetrata nella vita con la stessa pervasività che aveva nei Lager.

Nella nuova veste ecco nuovi riti, come quello del cuocere a puntino e dell’ingurgitare con lentezza la carne di pecora, metamorfosi forse un po’ basso-comica, e però molto corporea, di quella più nobile dell’agnello. Ma una malattia avanza, Tramontare sembra andare in coma, si confondono sempre più i suoi ricordi, le persone che le sono state vicine, e il presente, all’ospedale, dove arriva una giovane che sembra prendersi cura di lei. Non dobbiamo, nemmeno in questo caso, chiederci cosa è successo esattamente.

Dobbiamo invece seguire le modulazioni di un’esistenza al suo finire, all’effettivo tramontare, quando si pensa che «dopo la fine del regno animale, l’aria volerà via, e così i granelli di sabbia, il suolo eroderà, immateriale polvere, splendido residuo». E allora, se non c’è più sabbia, non ci sarà più nemmeno un suo prodotto imprevedibile: «non c’è più vetro». In questa bella metafora è contenuto uno dei significati possibili del libro di Gentile, il tentativo di individuare un quid che derivi dall’insieme di tutti gli stati esistenziali, reali o immaginari, nella vita o nella quasi vita, o nella non-vita che chiamiamo morte ma magari è altro. È lei che «detta le nostre agende», è sudi lei che ci interroghiamo, valutando chi è in grado di resistere e chino. Nel silenzio che chiude il libro, comunque, una voce parla ancora. Racconta di un’unione profonda, quasi mistica: la mente delle due parti unite «andava in tutte le direzioni» e loro «non morivano mai». Potevano essere considerati un angelo e un diavolo; forse erano solo gli opposti che si dovevano ricomporre.

Marco Marino su “Atlante” di Treccani, 29 agosto 2021

Tutte le riflessioni che cercano di rintracciare le verità sul tramonto non possono prescindere dal considerare la natura del buio. Il tramonto è uno spazio liminare, il sottile interregno tra il giorno e la notte, tra la luce e l’oscurità, tra il visibile e l’invisibile. Tra ciò che crediamo vita e ciò che riteniamo non vita. È ormai una consolidata dicotomia: da una parte lo splendore dell’alba, principio di continua rinascita; dall’altra, la decadenza del tramonto, ultimo tentennamento verso le ombre, che addolorano e spaventano.

Ma è davvero così, è una giusta visione? È vero che il tramonto segna un profilo di decadenza, di titanica inevitabilità delle tenebre, del buio che addolora e spaventa? Un’ulteriore domanda: esiste un’idea di tramonto lontana dalle raffigurazioni di William Turner nella prima metà dell’Ottocento, o siamo ancora sentimentalmente legati alle sue ispirazioni romantiche?

Sono domande che sorgono leggendo un’affascinante pagina del nuovo romanzo di Andrea Gentile, Tramontare (minimum fax). Tramontare è una bambina che crede di essere la morte (o almeno «così dicono»); all’inizio della storia Tramontare decide di entrare dentro un bosco, alla ricerca dell’agnellino che ha smarrito. Nel bosco la luce sta a poco a poco andando via, ed è il motivo che porta Tramontare a riflettere sulla paura del buio:

«Non ho mai avuto paura del buio. Il buio addolora, non spaventa. Io non provo neanche dolore. Che cosa sarà mai poi questa parola? Nel buio sto bene. Nel buio si può scherzare meglio. Gli scherzi al buio sono molto più efficaci. E se vuoi uccidere qualcuno, al buio, lo fai con grande tranquillità, senza problemi, questo è ovvio. Il buio è una malattia. Ammirare questo bosco, prima ancora del buio. Qual è il momento esatto in cui il giorno si tramuta in notte? Il tramonto è una bugia».

Il tramonto è una bugia, dice Tramontare. Si mostra a tutti come quotidiana premonizione del dolore e del terrore, e in realtà è un oracolo mendace, perché il buio è la dimensione della possibilità, della liberazione (d’altronde, scriveva Costantino Kavafis nei versi di Finestre, «sarà una nuova tirannia la luce»). Al buio, tutto riesce meglio.

Si fa passare come presagio dell’ineluttabilità della fine, il tramonto, o della estinzione estrema, e invece è tutt’altro. È una bugia, o forse una distrazione. Il camuffamento di una verità a noi mai rivelata: qual è il momento esatto in cui il giorno si tramuta in notte? La bambina Tramontare, nel suo soliloquio, continua: «Il momento esatto: avrei bisogno del momento esatto».

Il tramonto ci ammanta della sua teterrima bellezza, ci costringe ad ammirarlo, ci abitua a poco a poco al suo oscuro seguito. Ci fa credere di attraversare uno spazio, restando fermi. E nel frattempo, ci nasconde il segreto della luce, del suo prima e del suo dopo, del momento esatto in cui tutto da impossibile diventa possibile.

Non bisogna fidarsi, quindi, dei tramonti. Bisognerebbe cominciare a guardarli diversamente: non come ultima verità del giorno, ma come prima menzogna della notte; non come decadenza, ma come resurrezione; non come dolore, ma come gioia. Bisognerebbe, per osservarli davvero, nel tentativo di ghermire le loro ultime verità, seguire il canto di Franco Battiato in Prospettiva Nevski e «trovare l’alba dentro l’imbrunire».

Marco Malvestio su “minima et moralia”, 3 settembre 2021

Tramontare è un libro bifido: c’è la prima parte dove la protagonista eponima, Tramontare, è bambina, e la seconda in cui invece è un’anziana; di quello che accade in mezzo, nulla. Proprio per questo lo si potrebbe definire anche un libro bifronte: un libro diviso a metà che potrebbe essere letto come due libri diversi, tanto distinti sono il passo e lo stile. Se la prima parte è fatta di piccole scene di vita di paese, benché trasfigurate dalla criptica personalità della protagonista, la seconda è invece dedicata al suo monologo interiore e alle ruminazioni su un passato che, come del resto l’intero libro, non si sa quando e come sia avvenuto.

Come la precedente prova narrativa di Gentile, I vivi e i morti, anche Tramontare è ambientato a Masserie di Cristo. Nella realtà questo è un paesino in Molise, in provincia di Isernia, di cui è originario l’autore; ma nel romanzo di Gentile si trasforma in un luogo fuori dal tempo e dalla storia, un microcosmo chiuso e autosufficiente. Con l’eccezione della protagonista Tramontare (e del resto Tramontare non è un vero nome, ma un verbo), tutti gli altri personaggi sono privi di nomi propri, ma si riconoscono per il loro ruolo nella comunità – il Cancelliere, il Professore, la Maestra… Oscuramente, dietro lo sguardo ora innocente e ora caustico di Tramontare, le figure degli adulti paiono intente a macchinazioni misteriose, al tentativo di perpetuare o imporre un ordine al mondo.

In linea con una tradizione di fantastico intellettuale che si rintraccia già nelle prime avanguardie novecentesche, e insieme con il modello di letteratura metafisica ma impegnata di Giuseppe Genna o Antonio Moresco, Gentile si abbandona a una sorta di neorealismo nero, in cui il racconto del presente immobile del Sud Italia si mescola ai toni stralunati dell’invenzione fiabesca. Nella prima parte del romanzo assistiamo ai giri di Tramontare per il villaggio – di questa bambina strana che tutti conoscono e in parte temono, convinta di essere la morte, e la cui sorella defunta anzitempo viene adorata come una divinità in paese (si noti l’ironia, che richiama forse Carlo Levi, di chiamare Masserie di Cristo un paese in cui Cristo non viene mai nominato, e dove si adora invece un’improvvisata divinità pagana). Tramontare indirizza le proprie domande e dà le proprie risposte agli abitanti di Masserie di Cristo col tono del maestro zen che pronuncia i suoi koan, mentre i suoi interlocutori reagiscono ora con perplessità, ora con astio (“La fiaba, dice sempre la Maestra, è una malattia mentale”).

Nella seconda parte, invece, senza dubbio la più convincente, ritroviamo Tramontare ormai anziana, una vecchia che sembra a tratti saggia e a tratti disorientata dalla demenza senile. Tra le due parti c’è continuità, ma una continuità che non segue le leggi della causalità o della logica: ritroviamo alcuni personaggi, altri li perdiamo completamente, altri ancora è come se non fossero mai esistiti. Gentile mischia i modi della fiaba con la tradizione del populismo verista (più dannunziano e siloniano qui che verghiano) in un ibrido straniante:

Vivere a Masserie di Cristo è sempre stato naturale, il latte materno me lo disse, secoli e secoli fa, quando andavamo in campagna a cogliere le cerase, e rubavamo le pannocchie, e i contadini, burberi dalle sopracciglia irregolari, contadini come noi, ci rincorrevano, e quanto è bella la signora mia, l’odore del vino acido nelle case di mattoni in cotto, sgretolati. Eravamo attori di noi stessi. Attricette di campagna, dalle gonne fatte di stracci, la pallavolo di stracci, il gioco della campana dietro la segheria.

Che si possa essere gli attori di se stessi non è una notazione casuale nel romanzo di chi, come Andrea Gentile, si è adoperato per fare circolare in Italia l’opera di Thomas Ligotti, un autore che dietro alle figure di manichini, marionette e teatri ha nascosto l’orrore della crisi di agentività. Questo accade anche in Tramontare, sia nella prima parte in cui tutti i personaggi, come suggerisce il loro nome, interpretano un ruolo, sia nella seconda, in cui seguiamo la confusione crescente della protagonista davanti alla vecchiaia debilitante.

È difficile, a una prima lettura, decifrare l’architettura di Tramontare: la stessa struttura troncata in due e l’apparente estraneità delle due versioni della medesima protagonista lasciano stupiti. A questo si aggiunge la prosa di Gentile, insieme asciutta e suggestiva. Tramontare è un romanzo curioso e non semplice, ora oracolare e ora severo, in cui il passato e il presente, i vivi e i morti, coesistono e comunicano.

Francesco Iannone su “Il Foglio”, 22 settembre 2021

Il romanzo di Andrea Gentile Tramontare è il nuovo anello di una catena narrativa alla quale il lettore si tiene aggrappato scrutando con un occhio le voragini che si aprono sotto i suoi piedi e con l’altro i bordi oltre i quali lo saluta la felicità. Tutto sospeso come un passo sulle indeterminatezze di una soglia, che mentre ci mostra i tepori della casa, ci gela le spalle contraendo attese e desideri.

Tramontare è il nome di una bambina, ed è anche un destino universalmente inevitabile. E se risiede nel carattere il proprio destino, così come scrive nei suoi diari Sylvia Plath, possiamo dire che Tramontare è il simbolo di se stessa, è la rappresentazione magica di ciò a cui protende la sua esistenza, e l’esistenza di ognuno alla fine della conta dei giorni.

E cosa c’è alla fine? E’ una corsa sul cerchio. Un ritorno al punto di partenza. Il mistero, è ciò che avvia e disattiva il mondo, e la stessa Tramontare. Siamo ancora a Masserie di Cristo, ne avevamo appreso le atmosfere e gli incantesimi ne I vivi e i morti (minimum fax, 2018), le bizzarrie dei personaggi, i loro intimi segreti, gli enigmi che abitano le loro voci.

Gentile mette in bocca a Tramontare un canto che disperde la sua nota fra i disordini di un labirinto chiamato vita. E mentre il canto segue le sue aritmie, ciò che rimane è la domanda: sto diventando ciò che sono? O ancora: diventerò l’amore che desideravo essere? Una malata umanità che prova a raccogliere gli scoli del proprio sangue nei catini della speranza.

La Sorella, che è poi la sorella della stessa Tramontare, è il dio di Masserie di Cristo, è l’idolo ai piedi del quale si prega per la salvezza, personale e del mondo. La libertà, sembra volerci suggerire Gentile, che è poi la somma aspirazione dell’uomo, si avvera, ragionevolmente, in un legame, è il recinto santo dentro cui l’uomo cuce i suoi respiri facendone preghiere.

Esiste allora la libertà? Non esiste per come la intende, con una certa ingenuità, l’uomo contemporaneo. Si è liberi nella misura in cui si decide di appartenere. E Tramontare è dentro ogni crepa di Masserie di Cristo, è dentro ogni singolo tormento che scuote la sua voce, e la nostra.

La narrazione di Gentile procede poeticamente, per accostamenti, isterie emotive, immagini che di volta in volta attraversano gli strati per giungere al bianco ancoraggio delle ossa, altro elemento di ritorno nel testo. Il tempo del romanzo consegna al lettore armonie remote, dimenticate, e che la giovane, e poi adulta, Tramontare richiama nel testo con i suoi gridi timidi, le sue piccole implosioni interiori. Con la sua volontà di scavo, tenterà infatti di scavare in classe un cunicolo, ci ricorda che l’unica attività che riscatta la dignità dell’umano è l’offerta di sé agli abissi, ai vuoti dei propri baratri. Gentile ci consegna così un’opera che riavvia in noi un lavoro a cui la letteratura sembra volerci disabituare. E questo è il suo più grande merito.

Luca Romano su “Huffington Post”, 23 settembre 2021

“Penso a una notte sul lago. L’acqua era verde di fogna, affondavo i piedi nel fango, tutto era palude; e nuotavo dovevo salvare mio marito, i suoi occhi trasparenti, le braccia non riuscivano a nuotare, l’acqua era densa. Ero addolorata: mio marito sarebbe morto, un giorno o l’altro, come tutti, e allora nuotavo con meno forza, tutto era vano, salvare qualcuno, a che scopo?, per poi andare comunque incontro all’inevitabile, avventurarmi al centro del lago, nella notte buia, e i rumori della natura, perché, perché andare avanti, perché andare avanti sempre?

Era mai accaduto?”

È forse da quest’ultima domanda che si può partire per scrivere del nuovo libro di Andrea Gentile, Tramontare, pubblicato per Minimum Fax, perché è esattamente in questo spazio tra ciò che è accaduto e ciò che non lo è, che si crea un meccanismo interpretativo nel quale cresce la letteratura. Da questa domanda infatti si possono generare nuove domande, continuare a interpretare e a rileggere le pagine di Tramontare con un approccio nuovo.

Ci si può chiedere, infatti: come si racconta quello spazio che c’è tra la percezione comune e la percezione di sé? Tra l’esserci e quella che è la rete di significanti interpretativi? Le domande potrebbero susseguirsi fino a chiedersi anche se ha ancora senso chiedersi cosa sia l’esserci e cosa siano i significanti. Ma questo spazio in definitiva è lo stesso spazio che si genera tra la vita e la morte, nell’attesa di questo evento, nel rapportarsi alla morte stessa.

Tramontare però è un romanzo che travalica la struttura e la linearità narrativa del romanzo, in un percorso iniziato già con L’impero familiare delle tenebre future prima e I vivi e i morti poi. Sicuramente racconta la vita di Tramontare, nome-verbo della bambina protagonista che perde la sorella per la quale il paese nel quale vive inizia a sviluppare un culto. Tramontare però non è una figura a margine del culto della sorella, ne è parte, ne è forse autrice, ma appunto, la narrazione lavora sul ricordo, sulla narrazione stessa. È mai accaduto? Gli avvenimenti narrati sono ricordi? Sono apparizioni all’interno di una vita qualunque? Sono perdite di un sé permanente, il sé di Tramontare?

È necessario fare un passo indietro è tornare a un saggio del 2020, intitolato Apparizioni e pubblicato per Nottetempo, nel quale Andrea Gentile scrive, a proposito dei ricordi:

“La nostra vita quotidiana, poi, è costellata di una sostanza che, in qualche modo, diamo per scontata: si tratta dei ricordi. Essi appaiono continuamente, siano antichi o recenti – sgorga all’improvviso il momento di un bacio dimenticato, nell’adolescenza, in una domenica desolata, e l’alito di sigaretta della persona baciata; sgorga meno all’improvviso il ricordo della cena a cui ci hanno invitato ieri sera: il corpo ricorda bene, sembra ancora disturbato da quella lasagna piena di olio. Come è ovvio, non tutti i ricordi sono apparizioni: l’apparizione, come detto, genera un mutamento, seppur transitorio, comunque sostanziale.

Un attacco di panico può essere un’apparizione.”

Ed ecco che seguendo questo percorso interpretativo di Tramontare, si giustifica il salto che Andrea Gentile compie tra la prima parte nella quale il lettore affronta Tramontare bambina e la seconda parte nella quale troviamo Tramontare anziana. Un salto che si annida in quella che è la radice letteraria della mente.

Leggendo Tramontare si è costantemente a cavallo di quello che è il passaggio tra la veglia e il sonno, nel quale il mondo all’esterno esiste o non esiste nello stesso modo, nel quale il soggetto, Tramontare appunto, esiste solo nel momento in cui il mondo non c’è più e il mondo esiste solo nel momento in cui Tramontare non c’è.

Questa oscillazione ci porta costantemente all’interno e all’esterno di Tramontare, nei suoi ricordi, nelle sue percezioni, nei luoghi fisici e negli eventi, senza delinearne in maniera netta il confine: in questo senso anche la scrittura si adegua all’oscillazione, da numerosi periodi brevi, interrotti e ritmati da punti, si passa a periodi più lunghi nei quali il pensiero si fa gheriglio. La scrittura di Andrea Gentile si piega alla narrazione mostrandosi estremamente curata nel rappresentare ritmicamente e stilisticamente ciò che racconta.

Tramontare è un libro che scava nella complessità della materia letteraria, affrontando il dolore della fine come strumento narrativo, senza tralasciare mai il piacere stesso della lettura. I livelli di complessità si intrecciano per condurre il lettore in un luogo, che è Masserie di Cristo, dal quale è difficile uscire anche a lettura terminata.

Massimo Onofri su “Avvenire”, 24 settembre 2021

I vivi e i morti (1923) del siciliano Giuseppe Antonio Borgese sollevava sin dal titolo a un livello di incandescenza metafisica le problematiche storiche e generazionali del concitato romanzo del conterraneo Luigi Pirandello apparso in volume dieci anni prima e cioè I vecchi e i giovani. Ma I vivi e i morti è anche il titolo che, nel 2018, Andrea Gentile ha scelto, con un’ulteriore accelerazione in direzione dell’invisibile, per il secondo libro della sua combusta trilogia ambientata a Masserie di Cristo, frazione di San Pietro Avellana in provincia di Isernia, la città dove lo scrittore è nato: progetto iniziato con L’impero familiare delle tenebre future (2012) e che approda ora alla sua conclusione con Tramontare (Minimum Fax).

Occorrerà aggiungere che, esattamente un anno fa, è apparso per i tipi di Nottetempo il singolare saggio per lemmi (49 lemmi, da Bambino a Silenzio) intitolato Apparizioni, ove significativamente si legge: «Che cos’è un’apparizione? Tutto appare: viene alla luce». Definizione che — sia detto per inciso — potrebbe già valere come una prima approssimazione a questo narratore ipnotico il quale, a volte, dà l’impressione di scrivere in stato di trance e come concentrato nel tentativo estremo di espugnazione della fortezza notturna del senso: apparizioni fantasmatiche, in effetti, sono i suoi personaggi, mentre la realtà, quella che si percepisce col solido concorso dei sensi, viene continuamente sospinta sino ai limiti dell’allucinazione, quando è vero che, appunto, la vista travalica di continuo in visione: «Mi chiedo quale sia, nel ricordo, la soglia tra ciò che è accaduto e cosa è ricordato». Con un impegno sulla lingua che è quello di sottoporla a continua pressione distorsiva.

Per dire: “Tramontare” non è soltanto il verbo che tutti conosciamo, ma il nome della protagonista del romanzo. E poi: che cosa significherà di preciso «Se era impossibile fermare le lacrime di Tramontare, l’unica possibilità era cambiare il centro del pianto»? Ma andiamo con ordine.

Ancora Apparizioni: «La vita si manifesta su un oceano di morte». Sarà per questo, allora, che tutti i personaggi della saga di Gentile si qualificano innanzi tutto — mettiamola così: proprio in termini heideggeriani — dentro un «vivere per la morte». E il personaggio di Tramontare più di tutti gli altri, se è vero che, all’inizio, è una bambina che piange continuamente perché ha paura della morte. Un pianto estenuante, tanto che i genitori (che non si parlano), a un certo punto, la distendono in un carrozzino e la lasciano fuori casa in una notte di pioggia. Così facendo le imporranno un destino: «Da quel giorno Tramontare non ebbe più paura della morte. Da quel giorno Tramontare pensò di essere lei stessa la morte».

Quella morte che, precocissimamente, la priva della sorella: per la quale si solleveranno «statue» e si promuoveranno «processioni in suo onore», mentre il libro si strutturerà in due parti, dominate dalla stessa voce, quella di Tramontare, rappresentata prima come bambina, poi come anziana. Con la precisazione che lo sguardo, divaricato tra puerizia e senilità, consente allo scrittore di collaudare ancora una volta due decisive disposizioni della storia del romanzo: quella del “mare dell’oggettività”, seppure si tratti d’un mondo in frantumi (nella prima parte), e l’altra d’una sempre più debordante analisi di coscienza (nella seconda).

Romanzo lirico? Certamente. Ma soltanto perché il discorso poetico entro cui la narrazione si brucia resta il modo migliore, seppure il più difficile, per onorare i simboli e la loro vocazione a penetrare tanto recto che il verso della realtà: non per niente non esistono i nomi propri (su tutti spicca l’invenzione del “Bambino Nitido”): di modo che la connotazione vinca sempre sulla denotazione.

Sentite qua, nel capitolo che presta il titolo al romanzo: «In piena notte vado in piazza e la piazza è deserta. Tutti assenti. Masserie di Cristo è tutta stelle e solennità, il sole sembra assente da sempre. Assomigliamo a un quadro di un secolo lontano, siamo tutti di cartapesta, siamo un presepio senza religione». Già: un presepio senza religione. E dentro un tempo che simula il sacro, ma ne ha smarrito completamente il significato.

A questo punto una domanda s’impone: soprattutto in relazione a un narratore massimalista che, perentoriamente, rifiuta ogni idea di facile commestibilità del romanzo considerato invece prodotto d’arte e filosofia, mai di consumo: magari secondo l’idea aristocraticissima di Harold Bloom, per il quale letteratura e democrazia restano termini che reciprocamente si escludono, mentre non esiste nessun facile “piacere del testo” da perseguire, essendo la lettura faticosa e strenua acquisizione d’una bellezza e d’una verità che chiedono altissimo dazio, grandi sacrifici.

Questa la domanda: cos’è la letteratura per Andrea Gentile? Ancora una volta, è Apparizioni, il suo taccuino-laboratorio, a soccorrerci. Cito dal lemma Né vivi né morti: «La letteratura vive negli spazi indefiniti, nei luoghi dove non giunge la parola, negli spazi ignoti generati dal poetico». E poi: «La parola ci porta oltre la parola, nell’indicibile».

Del resto, nella voce Cosa accade mentre scrivo Gentile l’aveva espresso in modo molto chiaro: «La scrittura combatte sempre contro se stessa, con la tentazione di non esistere». E più avanti: «L’ergastolano si infrange ogni giorno sulle sbarre. E convinto che, giorno dopo giorno, si romperanno. Quando riesce a uscirne, compie lo stesso processo all’inverso. Romperemo le sbarre per rientrare in cella». Gli scrittori, ecco il punto, sono «ergastolani per sempre», custodi (e sacerdoti) delle verità profonde e buie dell’esistenza. Andrea Gentile non ha fatto che dimostrarlo in ogni suo libro.

Renato Minore sul Messaggero, 3 ottobre 2021

Nel precedente libro di Andrea Gentile, le Apparizioni sono qualcosa di nascosto o inatteso nel brusio della mente che “in un istante folgora una realtà, immaginaria o fittizia”.

Ora si legge Tramontare, inquietante e misterioso, ipnotico nell’inseguire una vicenda, anzi una doppia vicenda che s’incastra e si stinge perché “quel che accade e si segue è qualcosa che non sa cosa sia”. Da un lato, il romanzo sembra osservare, nel modo più surreale ma anche più temerario, la costituzione inquietante dell’infanzia con la storia di Tramontare, che si dice sia matta, venga dall’altro mondo, legga nel pensiero. E in un suo luogo con la sua identità, geografica storica folclorica, sgretolata nel mito e nel rito, nel passaparola comunitario che rende il paese molisano di Masserie di Cristo gonfio di vicende e personaggi oltre il buon senso, il senso comune, il prima e il dopo di ogni nesso temporale e spaziale.

Dall’altro la vicenda del secondo tempo del racconto: Tramontare anziana, i pensieri, le speranze, la memoria, qualche riflessione quasi postuma su ciò che ha vissuto. Tutto ha il ricordo e il ritmo di un disegno animato, solo la successione di tante immagini restituisce nel movimento quella finale.

Ma è un falso movimento, non combaciano in quella conclusiva le figure, spazi iconici, alone di un gesto, di uno spazio occupato. Si entra, un po’ disorientati, un po’ travolti dal mondo in frantumi della prima Tramontare e dalle domande della seconda.

Settantun capitoli serrati ritmano il tono ansante e insieme divagatorio, continua peregrinazione intorno a un testo (della bambina e dell’anziana) scritto da sempre e sempre da riscrivere per successive e generose approssimazioni. Ciò che rende imprevedibile e allucinatorio, pieno sorprese e fratture cognitive, il romanzo dove c’è molto del Calvino fiabesco e del Manganelli notturno.

Renato Barilli su Renatobarilli.it, 16 ottobre 2021

Sono di nuovo in presenza di una narrazione stravagante, in senso letterale, che sarei tentato di liquidare con un risoluto “pollice verso” secondo il metro che addotto nell’”Immaginazione”, ma sull’orlo del rifiuto mi ricredo, cerco di trovarvi aspetti positivi, se non altro per reagire al troppo vasto mainstream dei romanzi scritti “bene”, secondo le buone regole attuali del mestiere, come per esempio l’ultimo uscito a firma Piperno, “Di chi la colpa”.

Qui invece tutto è aberrante, a cominciare dal titolo, che corrisponde addirittura a un verbo all’infinito, “tramontare”, che è anche il modo insolito di chiamare la protagonista. D’altra parte il verbo del declino, dello scomparire gradualmente, si addice a questa storia, di dolori, nequizie domestiche, torti e colpe di genitori, anche se in famiglia c’è una sorella che scompare troppo presto, ma che merita un culto come fosse una santa, degna di erigerle statue in memoria.

Del resto, la vicenda, quasi non è percorribile con qualche ordine, è tutta una serie di miserie, di patimenti, sia fisici che psichici, e ci sono pure di salti cronologici. A un certo punto non sappiamo bene con chi abbiamo a che fare, chi parla, nella storia, e in quale fase ci troviamo, in questo processo inarrestabile di “tramontare”.

Come si vede, tanti interrogativi, tanti ostacoli a una lettura che pretenda di andare nel senso giusto, ma è poi questo che vogliamo? Non siamo stanchi di romanzi scritti “troppo bene”, con tutte le funzioni al loro posto? Non è più interessante un po’ di sabotaggio, di “rompete le righe e fate il grande polverone?” Questo l’interrogativo con cui chiudo questa ricognizione senza dubbio posta per intero nel segno del dubbio e dell’incertezza.

Fabio Donalisio su “Blow Up”, novembre 2021

Toma sul luogo del delitto, Andrea Gentile; in quella Masserie di Cristo che, nella sua inesistenza, raccoglie su di sé ogni possibile paese dimenticato da dio, rendendo evidente, prima di tutto, l’intenzione intrinsecamente epica delle narrazioni che accoglie, una voglia di metafisica nera in tempi affetti da presentismo acuto.

Chissà che non diventi, con ilt empo (che, apparentemente assente nel fiabesco terragno, indifferente scorre per gli esseri umani, scrittori compresi), una sorta di italica Yoknapatawpha (ché il modello faulkneriano, consapevolmente o no, scorre inqueste vene). Voce protagonista questa volta è Tramontare – sostantivo che è più che altro verbo, con palesi richiami occidentali – che conosciamo bimba, nel primo emisfero del libro, e vecchia nel secondo. In mezzo: un’enorme lacuna che solo in piccola parte è intenzione dell’autore ricostruire, lasciando al lettore lo sbigottimento, prima, e l’arduo compito di fantasia, dopo, perché sempre meno la nostra mens legens accetta che i conti non tornino, che i fili della storia si spezzino, che la realtà si frantumi.

Eppure il chiaro tentativo di Gentile di manipolare i verbi della fiaba non inficia il dato reale della sua narrazione. La profondità, l’opacità, la difficoltà di un mondo che è anche, ma non solo, il nostro. Unapatina metafisica sembra posarsi su tutto, agevolata dalla meticolosa eradicazione di ogni normale coordinata: nomi, tempi, spazi; il luogo stesso della rappresentazione è una sorta di guscio (Cristo, e tutto ciò che ne consegue, sembra non essere mai esistito; altri sono gli dei che soddisfano la vorace tensione all’assoluto dei paesani).

Proseguendo sulla linea tracciata da I vivi e i morti, Gentile ne smussa le imperfezioni (una certa verbosità che a tratti affatica, ad esempio) asciugando il testo sia nella costruzione sia nel dettato, mantenendo però coerente lo stile.

Proprio una leggera sopralerighità di detto stile, rimane la perplessità più forte riguardo a un’operazione altrimenti degna del massimo interesse. Ma possederlo, uno stile coerente e motivato, di questi tempi, è un segno distintivo che, al netto dello scetticismo intrinseco di chi scrive, nella sua rarità ha un sapore quasi di destino.

Francesco Iannone su “Nazione Indiana”, 8 novembre 2021

Tramontare è il titolo del nuovo romanzo di Andrea Gentile ed è anche il nome della protagonista dello stesso, una bambina, almeno per la prima parte del racconto, e un destino universalmente inevitabile.

Siamo sempre a Masserie di Cristo, un paese, oggi diremmo un borgo, con il quale i più assidui lettori di Andrea Gentile hanno già maturato una certa familiarità (era già il paese in cui agivano i protagonisti de I vivi e i morti, sempre edito da minimum fax). Credo si possa genericamente collocare in Molise, Gentile è infatti isernino, anche se un Masserie di Cristo esiste a ridosso di Castel di Sangro, in Abbruzzo, ma in realtà sono più convinto che Masserie di Cristo sia l’ovunque o che addirittura non abbia nelle intenzioni dell’autore una sua identificata geografia. Che sia una terra del dentro, una località interiore, un labirinto interno all’umano mi pare la più credibile delle ipotesi. È ancora una volta lo spazio dove le due dimensioni, ciò che vive e ciò che non è più in vita, si sovrappongono e si con-fondono nell’indistinguibile del mondo.

Possiamo dire che Tramontare è il simbolo di se stessa, è la rappresentazione magica di ciò a cui protende la sua esistenza, e l’esistenza di ognuno alla fine della conta dei giorni. E cosa c’è alla fine? È una corsa sul cerchio. Un ritorno al punto di partenza. Il mistero, così spesso evocato nel testo, ora contemplato come presenza certa, ora disconosciuto, è ciò che avvia e disattiva il mondo, e la stessa Tramontare.

In Tramontare siamo immersi in un mistero. E che l’autore faccia esplicitamente uso di questa parola potrebbe significare che quel senso di indeterminatezza che impegna le nostre vite nella decodifica dei segreti di quel mistero, qualunque esso sia, costituisca l’ossatura del testo proprio perché costituisce l’ossatura della vita di ognuno. Potremmo perciò parlare di romanzo esistenziale, se ce ne fosse bisogno, se un romanzo o una qualsiasi opera letteraria potesse degnamente esistere ignorando la problematicità del reale.

Ma chi è Tramontare? O cos’è? Se vogliamo risolvere la questione al livello del simbolo. “Parliamo della dimensione. Parliamo del dolore”, scrive Gentile nel capitolo intitolato “Soglia”. E la soglia, se non è un limite, è lo spazio nel quale sosta chi parte e chi ritorna. E i personaggi del romanzo, dal Bambino Nitido alla Maestra, dal padre alla madre attendono qualcosa offrendosi come il nudo legno della croce. Scrive a questo proposito Gentile per mezzo di Tramontare: “Anche tu, come me non hai pelle a proteggerti? Anche tu, pur essendo nitido, sei al tramonto?” Siamo nei sotterranei dell’esistenza, nei sottoscala dove Tramontare ha pensato di custodire una pecora, ci muoviamo in quelle oscurità, è il buio la malattia di cui siamo affetti. Una malata umanità che però non annienta il desiderio di “approfondire le armonie” che convertono il seme, il “sottosuolo” a cui sembra destinata la vita di Tramontare, in germogli.

Cosa cerca Tramontare? Cosa cerca l’uomo? Potremmo dire la libertà. Arrendersi è essere liberi, si legge ad un certo punto della storia. Ma arrendersi a cosa? A chi? In fondo ci aggiriamo nel bosco come cani solitari che ringhiano al nulla, ancora Gentile. Fiutiamo le orme, immaginiamo sentieri. E il bosco è ancora uno spazio del dentro, una intricata combinazione di ciò che siamo nell’intimo. Vaghiamo per i vuoti di noi mendicando l’ultima cerimonia della parola, quella che ci consegnerà a noi stessi e ci consentirà di riconoscerci nel nostro nome.

Che Andrea Gentile sia uno degli autori più originali del nostro fiacco panorama letterario credo sia ormai indiscutibile. Ma che la sua “poetica”, perché di poetica bisognerà parlare per poterlo inquadrare, anche se qualsiasi tentativo di classificazione opererebbe in modo riduttivo e mortificante, sia ancora tutto da indagare mi sembra un dato altrettanto certo. La critica, (ma esiste una oggi una critica che sappia “secernere”, “scegliere”, volendo ancorarci all’etimologia del termine), dicevo, quindi, la critica si avvicina alla sua opera con un certo stordimento relegandola ora ad un vago meridionalismo noir, ora ad un fantasy nutrito di ingredienti folkloristici. A mio avviso entrambi i respiri, seppure potrebbero essere considerati pretesti letterari fondati, non descrivono in modo definitivo i mondi a cui vorrebbe introdurci l’autore.

E non parlo di mondi casualmente dacché i tre lavori centrali della produzione di Gentile (che vi consiglio di recuperare, inoltre, L’impero familiare delle tenebre future edito ormai qualche anno fa dal il Saggiatore) erigono, per poi demolire di volta in volta, mondi che sono sovrapposizioni di nascite e tramonti che si armonizzano e si respingono in un succedersi di conflitti e pacificazioni che replicano i turbamenti interiori ed esistenziali di ogni uomo vivo, presente a se stesso.

Tramontare si configura come un’epica del possibile, e pure dell’impossibile, dove tutto ciò che accade è anche il suo contrario, dove la realtà è una crosta che i personaggi sono chiamati ad attraversare con gli strumenti, pochi, rudimentali, che hanno a disposizione. Esistono ragioni inafferrabili, esiste l’imponderabile, esiste quel mistero che Tramontare porta inscritto negli occhi e che fa inorridire la Maestra tanto da chiederle di allontanarsi, di distogliere lo sguardo. È così irricevibile il mistero? Ne siamo così spaventati? Forse è per disabitudine, forse è perché non siamo sufficientemente allenati e allora ci difendiamo opponendo una resistenza tenace.

Il testo ha un impianto spiazzante perché concepito essenzialmente in due momenti: una prima parte, apparentemente autonoma rispetto alla seconda, racconta di una bambina ed è fitta di incontri e accadimenti. La seconda parte, invece, ci presenta una donna in età matura nel pieno groviglio delle sue paure, dei suoi pensieri. Un lungo, ragionato delirio di una donna avvinta ai suoi tormenti e alle sue solitudini. Una donna in attesa di essere appunto “riconosciuta” come d’altronde auspica l’autore già nella prima arte del romanzo. La donna è tutta protesa verso l’arrivo di un nipote che possa affrancarla dalla sua disperazione. Attende un nome, un viso, una voce amata che sappia restituirla a se stessa nell’amore.

quella rappresentata da Gentile è una malata umanità che prova a raccogliere gli scoli del proprio sangue nei catini della speranza. La Sorella, che è poi la sorella della stessa Tramontare, è il dio di Masserie di Cristo, è l’idolo ai piedi del quale si prega per la salvezza, personale e del mondo. La libertà, sembra volerci suggerire Gentile, che è la somma aspirazione dell’uomo, si avvera, ragionevolmente, in un legame, è il recinto santo dentro cui l’uomo cuce i suoi respiri facendone preghiere.

La narrazione di Gentile procede poeticamente, per accostamenti, isterie emotive, immagini che di volta in volta attraversano gli strati per giungere al bianco ancoraggio delle ossa, altro elemento di ritorno nel testo. Il tempo del romanzo consegna al lettore armonie remote, dimenticate, e che la giovane, e poi adulta, Tramontare, richiama nel testo con i suoi gridi timidi, le sue piccole implosioni intime. Con la sua volontà di scavo, tenterà infatti di scavare in classe un cunicolo, ci ricorda che l’unica attività che riscatta la dignità dell’umano è l’offerta di sé agli abissi, ai vuoti dei propri baratri. Gentile ci consegna così un’opera che riavvia in noi un lavoro a cui la letteratura sembra volerci disabituare. E questo è il suo più grande merito.

Giulia Bocchio su “Poetarum Silva”, 31 dicembre 2021

Tramontare, edito da Minimum Fax, è l’ultimo romanzo di Andrea Gentile.
Un romanzo diviso in due parti, due pilastri tipici dell’esistenza e che si reggono sulla stessa incertezza di gambe: infanzia e vecchiaia, nel mezzo – in quello che alle elementari veniva chiamato “svolgimento” – ci sono sostanzialmente omissioni, inferenze narrative sospese.
Non è un fatto di necessità un arco temporale, né conoscere a tutti i costi i dettagli specifici di una storia (qualcuno lo ricordi a una certa fetta di editori pigri), la trama si nasconde tutta nel non detto alle volte, è lì che si genera la tensione emotiva.
Necessaria è Tramontare, la bambina che percorre i sentieri di Masserie di Cristo e i sentieri dell’inchiostro con lo stesso mistero e la stessa naturalezza ancestrale dell’essere bambini.
Non giovani, bambini.
Per questo c’è in lei una buona dose di crudeltà, di stranezza, di singolarità: non le daresti la mano, eppure qualcosa suggerisce di seguirla con gli occhi, in silenzio.
Pur ritrovandosi con un nome assai aggregante – il destino di ognuno in fondo è tramontare – è sola.
Una cornice rurale racchiude le azioni della bambina, ovunque in paese l’occhio liquido della Sorella, divenuta una statua, ovvero un culto, osserva senza generare giudizi le vite degli altri cittadini, che sembrano avere un ruolo ma non un tempo.

C’è l’ombra del gotico, ma bastano poche pagine per accorgersi che non serve un genere, non serve  inquadrare ostinatamente Tramontare, è un flusso, è accadimento, ogni vita ha i suoi segreti, i suoi denti rotti, la sua sporcizia negli angoli nascosti di casa. Il futuro è un fattore sospeso, esisterà solo se ricorderemo le tradizioni, se sapremo riconoscere la novità ancestrale di gesti sempre identici: loro ci conservano.
Nel frattempo, siccome a Masserie di Cristo il cibo è fonte di proteine e metafore concrete, è utile masticare la pecora.
Da vecchia, Tramontare la cucina ancora con pazienza, è una carne che va fatta cuocere molto, come se continuare a sfaldare quella carcassa consentisse di vivere più a lungo.
Se continui a fare qualcosa esisti, se continui a masticare la pecora sarai tu a digerire ancora sprazzi di vita e non sarà lei a ridurti bolo e poi scarto rarefatto.
Masticare, masticare, masticare ma senza ricette, non ne esiste una per addolcire la morte, per speziare il decadimento.
È un romanzo visivo, quello di Andrea Gentile, lo si potrebbe disegnare, evoca tinte fosche, favole nere, contesti, situazioni e forme che escono dall’ombra, muniti di artigli; si potrebbe anche invertire l’ordine di lettura, cominciare dalla seconda parte, non muterebbe il senso della vicenda umana perché questa storia come tutte le storie è un atto figlio della scrittura, un atto potente che dà vita e uccide tutto ciò crea.
Come la vita, come la morte.

Alberto Fraccacreta su “Mare Mosso”, 22 marzo 2023